Cosa resta quando tutto crolla?

Quando l’impossibile si manifesta in pieno giorno, quando la solidità apparente di ciò che crediamo eterno si disintegra in pochi secondi, quando l’ordine del mondo vacilla, e insieme ad esso il nostro senso di sicurezza, cosa rimane davvero?

Crollano gli edifici. Ma crollano anche le illusioni, le narrazioni lineari, le convinzioni di invulnerabilità che l’Occidente aveva costruito attorno a sé.
L’11 settembre 2001 è stato questo: una fenditura improvvisa nel muro delle nostre certezze. Un trauma collettivo che ha segnato la memoria globale e che ancora oggi ci interroga, più per ciò che ha lasciato in sospeso che per ciò che ha mostrato con violenza.

È rimasta la polvere, certo. È rimasto il vuoto dove prima sorgevano due torri. E ancora oggi restano delle domande: su chi siamo diventati dopo… su cosa abbiamo scelto di costruire e cosa abbiamo lasciato che andasse perso… dopo quell’11 settembre!

La memoria non è mai un esercizio neutro.
Ricordare significa assumersi il peso di ciò che si è vissuto, anche quando ci riguarda da lontano. Significa guardare in faccia la paura, il dolore, ma anche le reazioni che quegli eventi hanno generato: la sete di giustizia, ma anche la tentazione della vendetta; la solidarietà spontanea, ma anche la costruzione del nemico; il bisogno di protezione, ma anche la rinuncia a libertà fondamentali.

E oggi, mentre in Ucraina la guerra prosegue nel suo lento stillicidio di vite e speranze, e a Gaza il dramma di un popolo sotto assedio si consuma nel silenzio del mondo, ricordare non è solo un gesto rivolto al passato. È un atto di coscienza nel presente. Perché non esiste distanza sufficiente tra noi e la sofferenza degli altri, se siamo ancora capaci di sentire. E non esiste memoria vera che non abbracci ogni dolore umano, senza distinzioni, senza giustificazioni, senza calcoli.

Cosa è rimasto, quando tutto è crollato?
È rimasto il gesto di chi soccorreva, quando tutti fuggivano. È rimasta la voce flebile di chi chiamava casa, consapevole che sarebbe stata l’ultima volta. È rimasta la dignità di chi resisteva nel buio, anche solo per tenere accesa una speranza. Ma soprattutto è rimasta la responsabilità del ricordo. Non un ricordo cerimoniale, svuotato da troppi anniversari, ma un ricordo attivo, che obbliga a rivedere ancora oggi ciò che siamo diventati, che ci mette davanti al rischio di essere spettatori distratti della storia che, in modo diverso, si ripete.
Perché il crollo non è stato solo un evento architettonico o geopolitico. È stato un collasso interiore, una perdita di orientamento, una crepa nel modo stesso di abitare il mondo.

Il vero compito della memoria è fare luce sulle fondamenta. Interrogarci su cosa davvero tiene insieme una comunità, una democrazia, un’umanità. Perché non è il cemento, né l’acciaio, a rendere solido ciò che costruiamo. È la coscienza. È la cura. È la scelta, ogni giorno, di non cedere all’indifferenza.

Allora… oggi cosa resta?
Resta ciò che siamo disposti a custodire. Resta ciò che abbiamo il coraggio di non dimenticare.
Resta la possibilità di ricominciare – ma in modo diverso. Con più umiltà, più ascolto, più profondità.
Nel solco del pensiero di Paul Ricoeur “Anche il ricordo ha il suo compito: impedire che il tempo diventi indifferente.

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