La Shoah, con il suo tragico bilancio di milioni di vittime innocenti sterminate dai nazisti, rappresenta il culmine di un processo di disumanizzazione che si sviluppò attraverso propaganda, leggi discriminatorie e persecuzioni sistematiche. Sebbene il contesto storico sia unico, alcune dinamiche contemporanee, suscitano riflessioni importanti sul rischio di ripetere, sotto forme diverse, modelli di esclusione e emarginazione.
Durante il regime nazista, infatti, il primo passo verso lo sterminio fu la deumanizzazione delle vittime. Attraverso leggi come le Leggi di Norimberga, gli ebrei furono progressivamente privati di diritti civili, economici e umani, dipinti come una minaccia sociale e culturale. Questo processo culminò nella Shoah, un genocidio che non sarebbe stato possibile senza l’assuefazione dell’opinione pubblica all’idea che certi gruppi umani fossero “inferiori” o “pericolosi”.
Nell’era moderna, pur non essendoci paragoni diretti con la Shoah, si osservano preoccupanti parallelismi nel trattamento riservato a talune categoroie particolarmente fragili.
La retorica politica quando indiscriminatamemte dipinge intere comunità come criminali, spacciatori o invasori, alimenta stereotipi che possono segnare il preludio di nuovi processi di disumanazione.
La Shoah insegna che il processo di esclusione e oppressione non inizia con lo sterminio, ma con il linguaggio, con le leggi e con le politiche che rendono accettabile la discriminazione.
Con ciò non si intende banalizzare la tragedia dell’Olocausto, ma sottolineare un principio universale: ogni volta che si accetta la disumanizzazione di un gruppo, si apre la strada a forme di violenza e abuso.
La Giornata della Memoria, quindi, non è solo un omaggio alle vittime dell’Olocausto, ma un richiamo a vigilare sul presente, affinché le tragedie del passato non si ripetano, neanche sotto nuovi nomi o giustificazioni. Come scrisse Primo Levi: “Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo”.